littérature

Uguali e babbei (Egaux et nigauds) 2001

Un altro discorso sull’uguaglianza! Che follia, che barba e, soprattutto, a che pro?

 

Il lettore proverà un senso di sollievo nel sapere che non intendo rispondere come fanno tanti autori miei coetanei con un disinvolto “e perché no?”, evitando così di essere tacciati di solennità.

In questo momento, ci sono tutte le buone ragioni, forse non ce ne sono mai state di migliori nella storia degli uomini, per interrogarsi sul destino che abbiamo attribuito all’uguaglianza. Nondimeno, una perorazione come questa non basterà mai, se non altro per ostentare un interessamento al tema in questione; mi accontenterò di illustrare le ragioni per cui dobbiamo accettare di interrogarci sul malinteso che è all’origine del nostro modo di trattare l’uguaglianza.

Le nazioni, i politici, i filosofi dovranno tornare sull’argomento, alla luce degli errori e dei crimini commessi da due secoli in suo nome e dalla quale trae origine la maggior parte dei gravi inconvenienti che affrontiamo oggi. Nemmeno gli inconvenienti che ancora ci attendono nei rapporti internazionali (i più numerosi, i più generali e i più inquietanti) ne sono estranei. Il legame che esiste tra un’erronea percezione dell’uguaglianza e l’agitazione delle nazioni in lotta per il proprio riconoscimento è del resto sempre più lampante, come illustrerò tra poco se acconsentirete ad accompagnarmi.

Innanzitutto comunque, e per rassicurare i lettori accigliati se ce ne sono ancora dopo due paragrafi, mi affretto ad aggiungere che l’uguaglianza è di per sé un concetto particolarmente, eminentemente, necessariamente degno di rispetto. Tutto il problema consiste nel sapere davanti a che cosa o a chi gli uomini debbano essere uguali. Davanti al metro, alla previdenza sociale o davanti a Dio? Per rispetto delle menti scientifiche, che chiedono con convinzione che si risparmi loro il nome e l’idea di Dio in un discorso sull’uguaglianza, sostituiamo Dio con la Morale, ossia quell’insieme di diritti e doveri imposti a ciascuno di noi, esigibili da tutti e che permettono non soltanto alle società umane di funzionare, di prosperare, e agli individui di contribuire alla diffusione del sapere e della ricchezza, ma anche al regno del Bene di erigersi di generazione in generazione.

Come avete notato nel discorso che precede, lo sviluppo di una mistica dell’uguaglianza nelle nostre società (in seguito alla caduta, un po’ dappertutto, delle gerarchie dell’Ancien Régime), pur accompagnandosi indiscutibilmente a una diffusione del sapere e della ricchezza, almeno per un decimo dell’umanità, spesso si allontana dal Bene, proprio quando pretende di indicarne la direzione.

Non è forse perché una giusta percezione di ciò che rende gli uomini uguali dovrebbe innanzitutto passare attraverso una percezione non meno giusta di ciò che li rende superiori?

Superiori a chi, chiederete voi. O forse vi risparmierete di porre questa domanda troppo presto e di questo ve ne sono grato. Vi ringrazio di mostrare questa prudenza che distingue il saggio dal giornalista giacché esiste di fatto una superiorità assoluta verso la quale potrebbero tendere tutti gli uomini e che dovrebbe rappresentare il fine ultimo a cui sarebbe opportuno anelassero le società veramente giuste: è la superiorità secondo il Bene o secondo Dio, per coloro, ripetiamolo, non offesi da questo nome. Questa superiorità è precisamente quella di cui la nostra società, le nostre nazioni per la maggior parte e il nostro mondo hanno a che fare.

Come posso affermare una cosa simile? La preoccupazione del bene non governa la vita del pianeta come si osserva quando le truppe di ventritré paesi giungono nei Balcani per interrompere un conflitto secolare? L’uguaglianza tra gli uomini, tra i popoli non è iscritta nel frontespizio delle nostre istituzioni internazionali? Il prurito dell’uguaglianza non ispira forse gli architetti a moltiplicare i piani inclinati per permettere agli handicappati di raggiungere autonomamente un bar? Si sono persino inventate leggi sociologiche, equazioni per definire i metodi statistici di lettura della disuguaglianza, metodi che pretendono di classificare i paesi per ordine di conformità ad un ideale ugualitario meccanico (sempre più o meno legato all’istruzione dopo Condorcet). Vi risparmio i dettagli, per timore di opprimervi, ma la letteratura teorica è molto voluminosa a questo riguardo.

Sono state definite leggi per misurare la dispersione scolastica dei paesi facendo riferimento ad un ideale educativo di sei o otto anni di frequenza. Poi si è raffinato il metodo utilizzando ogni tipo di curve e indici che tengano conto di varie distorsioni. Ma la filosofia generale è sempre rimasta la stessa: come avvicinarsi ad un concetto meccanico dell’uguaglianza da raggiungere attraverso l’istruzione, da garantire attraverso una Costituzione, da finanziare con un budget o con un prestito del Fondo Monetario Internazionale.

E’ questo l’ideale che noi vediamo ancora all’opera in questo momento nei cosiddetti paesi emergenti come l’India, e che gli scolari indiani dimostrano attraverso la divisa che indossano a partire dai sei anni. Non è un caso se, tra le campagne a favore dello sviluppo condotte all’estero da Bill Gates, creatore di Microsoft, l’India occupi un posto privilegiato: si tratta di un paese in cui il destino dell’uguaglianza, o la pratica dell’uguaglianza moderna, deve essere sorvegliata e analizzata con estrema attenzione, poiché in questo paese la disuguaglianza tradizionale è, in principio, strutturale, e la casta di nascita condiziona la vita dell’individuo. Promuovendo un accesso uguale per tutti al sapere, e al medesimo sapere, cioè a una conoscenza utile alla costruzione della modernità tecnologica (quindi, in definitiva, non un sapere ma una competenza), Bill Gates, il suo successore, la loro impresa, il sistema economico che l’ha portata all’apice della gloria, le organizzazioni internazionali che moltiplicano le fondazioni, tutto questo mondo realizza, a prima vista, un’opera pia. Essi dispensano un messaggio teso a liberare l’individuo dalla disuguaglianza che lo opprime, a renderlo in grado di partecipare, di far parte del gioco. Ma chi ha fissato le regole del gioco, a cosa valgono, verso dove ci conducono?

Nessuno si pone veramente il problema. Ragione di più per sforzarci di farlo.

 

Ogni giorno, da trenta o quarant’anni, vediamo che la luce dispensata al mondo è fonte di cecità futura. Essa caccia le ombre, le differenze, l’identità stessa, così come aveva previsto Tocqueville, che raccomandava di far sgorgare dalla legge dei numeri la nobiltà dell’individuo e non il contrario.

Tocqueville esprimeva inoltre l’augurio che il desiderio materiale di accesso all’uguaglianza non divenisse fonte di violenza. In entrambi i casi, i suoi timori erano giustificati, e il fatto che egli li esprimesse facendo riferimento alla democrazia americana sorprenderà pochi oggi, giacché vediamo svilupparsi incessantemente un sistema in cui l’identità degli esseri e dei popoli è lastricata dall’ingiusta forza del numero.

Permettetemi di attardarmi un istante sulla metafora della luce. Essa agevola la comprensione di ciò che sta accadendo e di ciò che ci aspetta.

Finora, la molteplicità dei focolai di civiltà ha sempre permesso agli uomini di definirsi in funzione della luce che essi ricevono e che diffondono a livello soprattutto locale, secondo una grande varietà di esposizione, come si usa nel linguaggio fotografico o pittorico.

Alcuni volti sono disegnati dalla fiamma di una candela come nei quadri di Georges de La Tour, altri dal tramonto sopra i gradini dei templi, dai roghi funerari di Bénarès, da una minuta lampadina in fondo ai bazar e alle piccole botteghe africane; altri ancora dalla luce dei ghiacci norvegesi. Ma ciascuno di questi volti esce dall’ombra e dall’anonimato in una verità unica che ispira rispetto e che fa, d’altronde, la fortuna degli editori di riviste specializzate nella scoperta dei popoli.

Si può aggiungere che nei tempi non così lontani di dittatura - periodi in cui gli imperi erigevano specie di torrette dalle quali i capi si agitavano alla luce dei proiettori - i popoli vedevano con terrore le ombre allungarsi, la notte guadagnare terreno; eppure, restava loro almeno la candela, la luce interiore e soprattutto il concetto del limite tra chiaro e scuro.

Oggi cosa ci propongono?

Esattamente il contrario.

La luce permanente, il neon per tutti, lo schiacciamento delle ombre, un universo in cui la fiamma della vostra candela personale non soltanto appare fioca ma quasi sporca. I proiettori cancellano i tratti, i contorni, le frontiere: sotto il flash, tutti hanno la stessa faccia smorta e gli stessi occhi rossi.

Sostituite la parola “luce” con la parola “sapere” e capirete che il sapere moderno, la competenza moderna, il progresso della conoscenza e dell’informazione come vettori di uguaglianza sono, in molti casi, un cattivissimo affare per l’uguaglianza autentica. Essi schiacciano tutto: tradizioni locali, pensiero magico, scoperta intuitiva, medecina delle piante e chissà cos’altro, in nome della logica, della profilassi, del senso di generalità. In pratica, essi infliggono ai tre quarti del pianeta una necessità impossibile: quella di essere conformi ad un ideale lontano, invece di dar loro i mezzi per realizzare un ideale interiore.

Prendiamo ad esempio il principio secondo il quale la libertà di essere non potrebbe definirsi completa oggi senza la possibilità di accedere liberamente all’utilizzo di un computer alla scuola elementare; ebbene, questo principio egualitario, che preferisce la competenza al sapere, gode talmente di favore che dovrebbe suscitare qualche diffidenza giacché, di fatto, la parità di accesso di tutti i bambini del mondo al computer nella scuola primaria è un’ambizione che, anche qualora fosse legittima, resta impossibile da raggiungere.

Ora, quanto vale un ideale di uguaglianza al contemnpo materiale e materialmente impossibile da raggiungere?

Nulla. Vale nulla. Dal punto di vista filosofico, costituisce un inganno. Nulla è meno legittimo. Si può definire questa uguaglianza come dinamica: una partenza alla pari alla rincorsa della felicità tipica del pensiero americano. Ora, anche se la si realizzasse, ci sarebbero comunque dei primi e degli ultimi, ma soprattutto ci sarebbero persone che verrebbero comunque escluse dalla corsa.

Anziché mettersi al blocco di partenza, anziché allineare i nostri figli sulla linea di partenza, anziché percepire i nostri figli come partiti bene o male, anziché continuare a parlare di handicappati e di svantaggiati, dovremmo interrogarci su ciò che permetterebbe di fissare ciascuno di noi in un’uguaglianza immobile. Un’uguaglianza che non si realizza ad un blocco di partenza. Che non partecipa al gioco. Piuttosto, un’uguaglianza secondo statuto, che trae origine dall’essere e non dal fare o dall’avere. Si tratta di fare in modo che lo sguardo che noi portiamo sugli altri divenga fonte di uguaglianza di fatto, di un’uguaglianza statica, e che gli uomini non siano considerati uguali in ragione della loro conformità attuale o futura ad uno standard, come è divenuto troppo frequente, ma nonostante le difformità e le disuguaglianze, come accade sempre più raramente; un’uguaglianza non in ragione di ciò che li avvicina, ma di ciò che li allontana, di ciò che li distingue.

Per illustrare e difendere la difformità, mi prendo la libertà di citarvi la lettera che una coppia abitante nella regione delle Landes mi ha spedito in risposta ad un mio articolo apparso su Le Figaro; in quell’occasione mettevo in guardia gli europei dal puritanismo americano, temendo che un giorno o l’altro la possibilità che abbiamo oggi di girare nudi sulle spiagge venisse rimessa in causa così come è stato, a causa loro, la libertà di fumare sugli aerei o di consumare formaggi a pasta molle.

Riporto testualmente:

“Ecco cosa piace a lei: vecchie signore dai seni cascanti, dalle carni flaccide. Che spettacolo! Noi non siamo affatto pudibondi ma preferiamo educare i nostri figli al gusto del bello!”

In realtà, il messaggio ci rivela che abbiamo a che fare con una coppia che educa i figli nel disprezzo della nudità obesa o in età avanzata poiché i componenti fanno riferimento e si conformano ad un ideale estetico puramente sociale, una specie di regno umano medio, in cui la gente rientra nella norma e stanno insieme unicamente perché si assomigliano.

Gli altri dovranno coprirsi sulla spiaggia, se non astenersi del tutto dall’andarci.

In altri termini, la definizione di parametri di uguaglianza quali peso medio, colore medio, età media del bagnante, provocherebbe disuguaglianze feroci, nonché un’ingiustizia arrecata a coloro che non saranno mai conformi. Certo, esiste l’atteggiamento americano che mette sullo stesso piano di tutti gli altri un bambino emiplegico: spendere milioni per renderlo indipendente, suggerirgli di non specificare, una volta divenuto adulto, che si recherà ad un colloquio di lavoro in sedia a rotelle. Ma resta un’uguaglianza ingannevole. Poiché, nel presupporre che così facendo si possano compensare meccanicamente gli handicap di cui soffrono taluni bambini, ce ne saranno sempre altri malati di leucemia o malformati, persino incapaci di alzarsi. Sarà sempre presente in natura una percentuale di infelicità incomprensibile, una percentuale di disuguaglianza materiale di cui la nostra società dovrebbe tener conto, modificando decisamente il sistema di valutazione degli esseri – e della felicità.

 

L’uguaglianza autentica da ricercare attraverso l’istruzione dovrebbe essere quella di non permettere ad alcuno di poter pretendere di surclassare gli altri poiché, per definizione, la maggior parte non lo potrà fare; piuttosto permettere loro di esistere con dignità nonostante la competizione.

Ciò non significa affatto bandire la volontà di misurarsi con gli altri; ciò non vuol dire negare l’esistenza delle élite; ciò non implica affatto che l’azione di governo degli uomini debba essere affare di tutti senza distinzione di competenza.

Tutto ciò significa piuttosto che il povero di spirito possiede il medesimo statuto del principe davanti a Dio. E che, per il resto, secondo la legge evangelica, si dà a Cesare quel che è di Cesare, al formicaio ciò che gli spetta. Ci saranno sempre formiche operaie, formiche boscaiole, formiche regine e formiche cortigiane.

Il problema risiede nel fatto che l’ideale educativo moderno consiste nel permettere al maggior numero di bambini di salire sulla scala gerarchica del formicaio fino alla camera della regina, fino a far loro credere che questo privilegio non sia più la ricompensa per i propri meriti ma l’esercizio di un diritto. In nome di cosa? Dell’uguaglianza dinamica, la quale può riassumersi grossolanamente nell’espressione “non c’è ragione”: non c’è ragione che il vicino abbia più di me, che abbia delle opportunità e io no eccetera.

In Tocqueville, si vede già che il nemico dell’uguaglianza, dell’uguaglianza bonaria è la bramosia. Egli ha già intuito che l’uguaglianza è malata sul nascere, che deriva dal desiderio di accedere alla superiorità per esercitarla a sua volta. Non è certo un’idea sana di uguaglianza, se ne converrà. E non si tratta nemmeno di un’idea sana di superiorità, poiché una superiorità sottraibile al vicino come se fosse un giubbotto, una superiorità esercitabile al vostro posto a condizione di cambiare d’abito, di acquistare beni nazionali o di farsi chiamare marchese dietro decisione del Consiglio di Stato (oppure, più semplicemente, di farsi eleggere), è una superiorità che non ha alcun valore davanti alla morale.

Platone raccomandava di praticare un’uguaglianza che consiste nel dare di più al grande e meno al piccolo, al fine di tener conto della diversità delle varie nature, non certo di correggerne le differenze; Cicerone, per quanto mi ricordo, diceva più o meno la stessa cosa. Perché lo dicevano?

Perché non si trattava di arricchire il ricco né di impoverire il povero. Né Platone né Cicerone parlavano di disuguaglianza materiale. E’ questa che va corretta è che è legittimo correggere, come affermava Tocqueville; ma Tocqueville aveva capito molto bene anche che l’uguaglianza basata sul metro, sulla perequazione non eleva soltanto i redditi e le posizioni: di fatto essa è perfettamente in grado di svilire le anime.

Senza soppesare la famosa differenza di natura di cui parlava Cicerone, tralasciando cioè ciò che designa esattamente e soprattutto fino a quale punto sia immutabile, posso almeno suggerirvi di affidarvi a Jean-Jacques Rousseau, per il quale l’accettazione delle differenze tra gli uomini proviene da un consenso reciproco tra governanti e governati, e deriva dalla volontà generale. Rousseau è stato rimproverato parecchio per aver giustificato lo schiacciamento individuale a favore del numero, ma è probabile che abbia avuto piuttosto in testa una specie di legge interiore, una convinzione individuale generalmente condivisa, quella della gerarchia autentica secondo coscienza.

Questa non è mai stata contraria all’uguaglianza: è quella che fa sì che Jacques Chirac si alzi in piedi vedendo entrare l’abbé Pierre. Egli intravede in lui il punto di riferimento di un ordine che rende relativo quello del formicaio.

Si penserà che l’accenno all’abbé Pierre sia un tentativo supplementare di reintrodurre l’idea di Dio in questo discorso: niente di più falso.

Del resto, esiste un’altra gerarchia più facilmente ammissibile da un ateo, una gerarchia estranea alla religione e tuttavia altrettanto misteriosa: quella dell’arte e della creazione; è proprio qui che i limiti dell’uguaglianza dinamica sono più evidenti e più ridicoli.

Per riassumere, immaginate una società in cui sia stata eliminata ogni fonte di disuguaglianza materiale. Immaginate che tutti abbiano un impiego, una casa accogliente, una bella auto, un paese pulito e tranquillo, bambini affettuosi iscritti in una buona scuola. Immaginate dunque, più o meno, la California o la Florida del Sud.

Cosa rimane loro da conquistare, in termini di uguaglianza? Quasi nulla, eppure l’essenziale; qualcosa che faccia correre gli sfaccendati di tutti quei quartieri in cui si contano due vetture per abitante da almeno due generazioni.

Cosa reclamano i più fortunati abitanti del pianeta per eguagliare coloro che si trovano ancora un gradino sopra di loro? Non sono i soldi, non è la bellezza, poiché abbiamo pressupposto che essi godano già dell’uno e dell’altra in abbondanza. Il culmine dell’uguaglianza dinamica non consiste nemmeno nel permettere a chiunque di diventare una star per cinque minuti della propria esistenza, come aveva previsto il pittore americano Andy Warhol.

E’ essere creativi. In California, in questo momento, centinaia di scuole, di istituti, di università cercano di insegnare alla gente a diventare creativi partendo dal principio più o meno espresso che non c’è ragione di stimare un bambino piuttosto di un altro per le sue doti naturali, poiché l’attitudine creatrice deriva da un’istruzione appropriata. Se l’attitudine alla creazione deriva da uno sforzo particolare compiuto sui mezzi, allora quest’ultimo può essere acquistato, pagato e offerto ai propri bambini. In tal caso, è possibile esercitare le proprie attitudini con qualche possibilità di successo, considerato che ciò dipende principalmente dalla perseveranza di cui si dà prova e del denaro che si investe.

Ma l’idea opposta, secondo la quale le doti naturali si contraggono alla nascita, viene sempre più rifiutata; diavolo, essa obbliga a passare dall’uguaglianza dinamica all’uguaglianza statica. E comunque, chi può dubitare che i bambini nascano a milioni con doti superiori o inferiori ad altri secondo le attività che abbracciano? Nessuno o quasi ne dubita ma il sistema è obbligato a dubitarne contro ogni evidenza. Il sistema, nonostante gli sforzi reali o supposti che esso compie per i superdotati, sminuisce coloro che si elevano e pretende di elevare quelli che vegetano, fino a permettere a questi ultimi di raggiungere il famoso magma dell’80% dei diplomati previsto per la loro classe d’età.

Ora, in fin dei conti, lo si vede bene, nessuno è soddisfatto. Coloro che vengono artificialmente strappati alla condizione di somari per consegnare loro un diploma senza valore, restano gabbati. Coloro ai quali si fa abbassare la cresta, ai quali non vengono riconosciute le doti naturali e il loro potenziale tende ad inasprirsi, ad essere abusato o non affinato, tendono a degradarsi essi stessi o a divenire sprezzanti, a causa di un eccesso di quell’orgoglio che nessuno ha voluto valorizzare secondo una giusta proporzione.

Una giusta proporzione. Ciò significa che l’uguaglianza autentica mantiene un rapporto stretto con la giustizia (è addirittura il sinonimo che le viene attribuito generalmente) ma anche con il senso della proporzionalità. A ciascuno secondo i propri meriti, i propri mezzi, le proprie doti, la propria singolarità.

 

Eccoci obbligati a passare dagli individui alle nazioni. Gli errori nel percepire l’uguaglianza che abbiamo commesso nel governo degli uomini a partire dalla rivoluzione industriale hanno prodotto conseguenze ancora incalcolabili quanto al divenire dei popoli.

La legge che viene loro applicata ormai non è più quella di proporzionalità, che li onora e li rispetta, ma quella di maggioranza, che li disconosce e li disprezza. Essa non tiene conto dei caratteri locali, si applica dappertutto allo stesso modo, giunge ad alterare finanche la verità storica per rafforzare l’idea divenuta indiscutibile secondo cui gli imperi devono prevalere sugli Stati, gli Stati sulle Regioni, i conglomerati sulle filiali e le filiali sui laboratori. Se, nel 1914, uno studente serbo assassina un arciduca d’Austria, cosa fa? Protesta contro una legge straniera? No. Illustra il pericolo dei particolarismi.

Perché questa rabbia?

Vorrei che ci si soffermasse su questo stravagante paradosso: ve lo enuncio ancora una volta, affinché possiate misurarne la tranquilla, impudente, feroce assurdità. Quando, per difendere l’universo culturale locale che lo ha visto nascere, uno studente affronta un rappresentante della potenza imperiale, cosa dimostra?

Non dimostra l’oppressione di cui la sua cultura di nascita è vittima. Non dimostra l’illegittimità delle regole stabilite a Vienna per il controllo dei Balcani. Nell’immaginario storico del XX secolo, e dunque nei manuali di testo, egli dimostra che la sua cultura di nascita non è abbastanza ragionevole dal punto di vista politico per vivere in buona armonia con il proprio oppressore e i propri vicini imbavagliati.

E’ esattamente il discorso che ci hanno propinato agli inizi degli anni ’90 a proposito dell’Europa centrale. I particolarismi, ci hanno detto, sono fautori di guerra. Ma gli imperi che li schiacciano, loro, sono fautori di nulla. Il fatto che Clemenceau abbia smembrato l’Ungheria dei due terzi a beneficio dei vicini a seguito del trattato di Trianon non è stato commentato un solo istante. Da quando il muro di Berlino è stato abbattuto, abbiamo sentito in Francia ogni sorta di intellettuale esprimere la propria diffidenza contro il ritorno dei particolarismi e contro ciò che essi definiscono l’Europa delle tribù.

(En passant si noterà il disprezzo di cui la parola tribù è portatrice, poiché riduce piccoli popoli come gli ungheresi, i savoiardi, i baschi, i catalani o i bretoni, per quanto singolari, al rango di precivilizzati). Di fatto, i partigiani più infervorati dell’internazionale egualitaria non vogliono che un popolo alla ricerca di una dignità locale rimetta in questione il potere che hanno acquisito sulla realtà, o piuttosto sulla lettura che essi danno della realtà.

La definizione che tali partigiani indicano per uomo, in tutte quelle grandi internazionali dell’uguaglianza, passa attraverso la percezione della prospettiva più ampia fino al fantasma opposto: quello della non identità, che poggia sull’astrazione dei popoli (planetarismo), del lavoro (sviluppo del terziario), del denaro (speculazione e riciclaggio), della persona (l’es psicanalitico).

Viste da questa prospettiva, le conversioni spettacolari, i passaggi dallo stalinismo al liberismo più spudorato non sorprendono poiché il principio, da un margine all’altro dello scacchiere politico, è sempre lo stesso: si tratta di fondare un ordine egualitario attraverso l’astrazione dell’inquietante varietà della vita.

Quando i nostri moderni internazionalisti denunciano il fantasma identitario, essi intendono soprattutto affermare che uguaglianza significa meno identità possibile. Li si reputa tolleranti poiché esclamano incessantemente “Siamo tutti uguali”. In verità, questo bisogno di uniformità rivela innanzitutto un’intolleranza mostruosa nei confronti della diversità naturale, considerata un’ingiustizia. Certamente non sono xenofobi, ce lo ripetono a sufficienza, ma non sono nemmeno xenofili: ai loro occhi, lo straniero non esiste. Lo hanno soppresso dal proprio dizionario.

Se un uomo si presenta al loro cospetto con un accento incancellabile, se mostra segni inequivocabili della sua Europa centrale, se si tratta di uno scrittore boemo che parla di ricordi comunque legati alla sua terra, essi sottolineano volentieri che è nato in Ungheria o in Slovenia, da genitori cechi, che ha vissuto l’infanzia a Praga, che è andato a studiare in Germania, che ha ottenuto una borsa negli Stati Uniti..... Quanto alle confessioni religiose, l’unica che tollerano le mescolerebbe tutte. Infine, da quando si è presentata la questione della Slovacchia ungherese o dei Carpazi, a Parigi si assiste al grido di “al fuoco al fuoco” da parte di una brigata di pompieri ideologi che ci spiegano che si tratta di invenzioni, che questi paesi non esistono, che vi è stata una tale mescolanza che è impossibile ormai dire chi è figlio di uno o dell’altro.

Questo modo di ricondurre incessantemente la questione delle nazionalità alle origini genetiche dell’individuo è impulsivo o disonesto nel migliore dei casi, vizioso nel peggiore. Esso tende ad assimilare desiderio di identità culturale e razzismo.

Poco importa che un compositore di danze slovacche sia nato in Pomerania o sia cresciuto in Germania. Che sia di origine giapponese, ebrea, turca, non importa minimamente. Se il nostro compositore trascorre la vita nei conservatori e nelle biblioteche di Bratislava, è slovacco a pieno titolo. Però, se si sostituisce il conservatorio di Bratislava con un Music Center non è più nessuno.

Si misura bene lo spauracchio che le “tribù” rappresentano attualmente per gli internazionalisti, i difensori dell’uguaglianza dinamica che si acquista e si vende: le tribù diffondono e perpetuano ogni forma di cultura, compresa quella che sfugge loro.

Come da noi in Francia, tutto ciò che concerne il mondo contadino, le regioni, il folklore diventa loro sospetto fino al delirio; essi ritengono che le piccole popolazioni come gli ungheresi subcarpatici o gli abitanti della Voivodina serba rischiano di mettere un giorno fuoco alle polveri qualora reclamassero i propri diritti. Per un po’ vi diranno che è necessario ripulire i Balcani da ogni nazionalismo. Non abbiamo già sentito questo verbo nel corso della Storia?

 

 

Cos’è il “nazionalismo” e che cosa designa? Designa un difetto di uguaglianza statica. Se si parla volentieri dell’Ungheria come di un piccolo popolo (si sarà capito che amo l’Ungheria) è perché, nello spirito internazionalista, gli Ungheresi saranno sempre e soltanto gli abitanti di un piccolo territorio solcato da violinisti in salopette ricamata che onora antenati propri non ben definiti. E’ così che si accelera il riaffiorare del sentimento nazionale in forme guerrafondaie. Dopo aver provocato l’incendio, hai voglia a gridare “al fuoco”.

La lezione n° 2 del metodo di apprendimento ungherese Assimil ci propone un dialogo prodigioso tra un allievo e il suo professore:

“La Francia è un grande paese.

- Professore, anche l’Ungheria è un grande paese, vero?

- Sì, Pierre, anche l’Ungheria è un grande paese”.

In questo breve dialogo, leggo la confessione patetica di un’inquietudine che non riguarda la grandezza dell’Ungheria, bensì la sua identità. Rispetto alla Francia e all’Impero francese, rispetto all’America che ha fatto del pianeta la propria riserva di caccia, il proprio terreno di gioco o di manovre, rispetto all’ex Unione Sovietica, l’Ungheria è di fatto un paese talmente piccolo quasi da non esistere.

Se nessuno garantisce il rispetto dei popoli, a questi non resterà altro che l’orgoglio. Nel breve dialogo riportato sopra, un internazionalista francese vi scorgerà immediatamente un bisogno di riconoscimento piuttosto losco. In verità si deve leggere: “In un sistema in cui la prima necessità è di essere grande, o almeno di essere considerato tale, anch’io affermo che il mio minuscolo paese è grande (e perchè non feroce, già che ci siamo), ma lo affermo oltanto per esistere, per elevarmi allo stesso livello degli altri”.

Eccoci dunque al cuore del famoso pericolo nazionalista di cui si parla tanto. Ora, chi ha detto, chi ha fatto in modo che, per esistere, un paese debba passare attraverso tutto ciò? Qual è il sistema che ignora i popoli ad un livello tale che gli uomini si sentono improvvisamente obbligati a mostrarsi a muso duro per essere riconosciuti? Il nostro. L’internazionale.

Est o ovest che sia, qualsiasi internazionalismo forsennato porta al disastro tramite l’oppressione di quantità trascurabili. Ricordiamo che la Costituzione sovietica definiva “dovere internazionalista” l’azione condotta dagli agenti dell’Impero che giungevano a Praga o a Cuba. E chi non percepisce, oggi, il peso di questo presunto dovere nei discorsi dei nostri commentatori politici o culturali? Si tratta di un postulato, in verità. Ecco qualcosa di cui non si discute nemmeno più. I canali televisivi trasferiscono tre tonnellate di materiale per realizzare una diretta da Pristina in nome dei “doveri internazionalisti” del liberismo.

Chi siamo? finiscono col chiedersi i popoli sbeffeggiati. Una manifestazione di collera, due o tre discorsi permettono loro di rinfrescarsi la memoria, gridano in seguito la propria esistenza, riuniscono la famiglia, respingono gli agenti dell’Impero, martirizzano le loro minoranze, eventualmente partono per conquistare i vicini. E’ un classico e non merita commenti troppo eruditi. Tutti hanno capito. Nei cortili delle scuole, si assiste a reazioni del tutto simili e tuttavia i maestri non scrivono trattati sulla Croazia. Allora perché i nostri intellettuali persistono nel condannare il fantasma identitario e non piuttosto la privazione sistematica e deliberata del diritto degli umili all’uguaglianza secondo statuto che rappresenta un pericolo per l’umanesimo europeo? Perché si insiste nel pretendere che sono gli studenti serbi a provocare conflitti mondiali assassinando i principi d’Austria? I responsabili non sono piuttosto i furieri del sistema imperiale, coloro che hanno cercato di addormentare i popoli, di circuirli, di reprimerli instaurando il cosiddetto regno del club, nel quale è necessario aderire a determinate condizioni prima di potervi accedere, a scapito di quello famigliare, dove invece ciascuno è amato e capito incondizionatamente?

Eppure, quella disonestà che consiste nel considerare l’oppresso il responsabile delle reazioni a catena scatenate dal suo rifiuto è molto corrente oggi. Se le comunità che pendono a favore del nazionalismo combattente fossero state riconosciute nell’ordine dell’uguaglianza secondo l’essere, secondo la cultura, esse non avrebbero bisogno di realizzarsi in quello dell’avere, della conquista territoriale, della natura.

Il patriottismo non è, come si pretende continuamente di far credere, un modo di segnare il proprio territorio di conquista. Esso permette unicamente di accedere all’essere attraverso una definizione del sé di fronte al gruppo a cui si appartiene. I valori che hanno presidiato la vostra educazione, la pratica e l’evoluzione dei vostri costumi, i caratteri singolari della vostra infanzia, i miti che l’hanno cullata, tutto ciò forma una geografia del cuore e della mente senza la quale nessun Pollicino saprebbe trovare il giusto cammino sulla via.

 

Al centro spaziale di Houston si vedono sfilare tutte le etnie e le culture della terra in perfetta comunione. Nella Città delle stelle in Siberia nessuno si sente uzbeco o lettone; nella City di Londra i giovani finanzieri del sultanato di Oman laureatisi a Princeton non indossano la djellaba. Se la Storia li obbligasse un giorno a rinunciare alla propria lingua, alla propria religione, alle proprie usanze, essi proverebbero soltanto un po’ di nostalgia. La definizione che essi danno di “uomo” l’hanno trovata altrove, nelle preoccupazioni generali che relegano in secondo piano la necessità di far parte della famiglia immediata. La comunità degli scienziati e dei filosofi da sempre si dichiara di appartenere alla famiglia umana. (Internet ci mostra fino a che punto essa esista.) In essa, ciascuno trova la propria identità malagrado l’estensione del gruppo di riferimento. Per loro, di fatto, il mondo è veramente un villaggio, ne vedono le estremità, la circonferenza, possono situarsi nella prospettiva più ampia. Inoltre, sono in contatto reciproco permanente.

Ahimé, la frontiera tra il noto e l’ignoto di cui ognuno di noi ha bisogno per sapere a che punto è della propria vita, per avere coscienza di se stesso, viene incessantemente spinta fuori dalla vista degli umili dallo scienziato, dall’ingegnere, ma anche dal giornalista, dal sociologo, dall’artista mediatizzato abituato ai congressi e alle conferenze. Parecchie grandi menti internazionaliste sono intimamente convinte che gli altri, la povera gente, non possono far altro che adeguarvisi. Tutte le pubblicità televisive su Internet seguono questa direzione: mostrano un contadino nelle risaie mentre gli viene annunciata la buona novella tecnologica come unica via in grado di restituirgli la dignità d’uomo. Le nuvole si squarciano per permettergli di collegarsi al web.

E se avessimo torto?

Possiamo biasimare colui che non vede il mondo nella sua interezza perché preferisce rimanere nel suo villaggio? Meglio ancora: non ha forse le medesime opportunità dei più elevati spiriti della terra di toccare l’universale accarezzando la propria pipa o il proprio cane?

Esistono due modi per concepire il mondo: farne il giro oppure guardare le stelle. L’orizzontale o il verticale. L’internazionale o l’universale.

I partigiani dell’internazionale, siano essi comunisti o liberisti, ci stordiscono con la loro visione orizzontale del pianeta da più di un secolo. Ognuno sa che, per estendere il proprio orizzonte in questo caso, è necessario prima o poi montare sugli altri. Mentre l’universale, il verticale è l’uguaglianza a portata di tutti. Per misurarsi con le stelle, non c’è alcun bisogno di schiacciare gli altri o di innalzare torri di duecento metri: basta alzare lo sguardo.

Non aspettiamo che i miserabili del pianeta, inchiodati al proprio orizzonte, trovino una definizione di uomo secondo gli stessi parametri del giornalista newyorchese in continuo cambio di fuso orario. Sarebbe ridicolo e soprattutto sarebbe criminale obbligarli a ciò. Se ad un bambino della periferia di Budapest viene lasciata l’opportunità di imparare il violino dal genitore ungherese povero, patriota, musicista; poi di crescere, dopo la morte del padre, nel rispetto della memoria paterna, della patria, degli umili, della musica fino a diventare un uomo di qualità, un uomo compiuto, capace a sua volta di dare un’anima al proprio figlio; in nome di cosa si rimproverebbe a questo signore di non aver trovato una propria definizione attraverso il cinema internazionale, la letteratura d’areoporto, i viaggi a Bora Bora, la telediffusione satellitare?

Al contrario, se si cerca di imporgli, fin dall’infanzia, il culto della prospettiva più ampia, quello della definizione impossibile, lo si fa precipitare immancabilmente nell’insignificanza e poi nella collera. Considerato che, ve lo ricordo, esistono ormai due internazionalismi: quello dei raffinati che fanno comunella tra loro e quello di coloro che permettono agli imprenditori, loro fratelli indegni, di infliggere alla terra intera la barbarie del largo consumo.

L’egualitarismo teorico orizzontale è ingiusto tanto quanto allineare un emiplegico al blocco di partenza accanto ai migliori atleti.

La vocazione degli umili è anch’essa quella di diventare uomini. Ora, qualsiasi cosa si faccia, anche nel caso in cui riuscissimo a cancellare la miseria, ci saranno sempre persone che potranno disporre soltanto del necessario e che saranno comunque incapaci di seguire il movimento a cui li obblighiamo.

Contro l’idolatria del generico che fa sì che le classi popolari chiamino ormai i propri figli Steve, Cindy o Deborah come nei telefilm americani, contro l’emergenza di un sottoproletariato dell’essere in tutti i continenti, è tempo che l’Europa ci mostri ciò che essa ha di peculiare. Quando se ne dà pena, quando si mobilita per la difesa del suo patrimonio interiore, l’Europa è capace di resistere come nessuno potrebbe immaginare a prima vista. Ricordiamoci ad esempio della sfortunata avventura rumena, parabola luminosa, racconto di Perrault, caricatura delle nostre modernità sconvolte dalla competitività internazionale.

Ricordiamoci dello straordinario movimento di protesta nato nei villaggi francesi quando Ceaucescu, il “Danubio del pensiero”, si è messo a smantellare le chiese nel 1989 per aumentare l’ardore del proprio popolo nei confronti del lavoro. All’improvviso è stata la levata in massa istintiva. La santa collera. I contadini delle nostre parti hanno adottato in poche settimane i loro omologhi rumeni e hanno realizzato operazioni di gemellaggio in tutta fretta per circoscrivere il fenomeno. Sono state organizzate mostre fotografiche in cui si vedevano anziane contadine dei Carpazi in fichu nero gironzolare attorno ad un buco enorme che era stata la loro casa. In breve, si comprende che la comunità di interesse tra Europei non passa attraverso l’internazionalismo, la tabula rasa, la società razionale, bensì il contrario. Di colpo, si sarebbe voluto raggiungere Bucarest in camion, organizzare trasporti di coperte e di scatole di conserve. Bisogna avere assistito a questa curiosa mobilitazione nel cuore del fenomeno, cioè da un piccolo villagio francese, per capire quanto questa campagna frenetica differisse da tutte quelle organizzate negli anni precedenti per l’Etiopia o per il terremoto in Messico. La fonte di questa potente espressione di solidarietà fuori frontiera era la difesa del particolarismo paesano.

Se temiamo per la nostra identità, percepiamo anzitutto la legittima aspirazione dell’altro a restare se stesso e noi sappiamo che egli è nostro uguale per ragioni più potenti e più profonde che non la cifra del PIL pro capite.

L’agitazione dei popoli, di cui ogni cosa ne indica il risveglio in questo momento, deve essere interpretata come un richiamo alle fonti filosofiche dell’uguaglianza, come un bisogno di essere e di essere se stessi rispetto al magma planetario.

Essa è l’espressione di un bisogno eterno, universale, legittimo, quello della definizione di sé. Quando coloro che non sanno più chi sono chiedono ragione di questa ignoranza a coloro che continuano a vivere nell’ignoranza, è troppo tardi per inviare la polizia antisommossa: si deve piuttosto cambiare regno.